Il giro del mondo in solitaria di Daniele Pellegrini e Cesare Gerolimetto su un «75 PC» camperizzato Orlandi precedette di circa quindici anni la prima delle tante spedizioni della grande armada arancione Iveco Overland
Dopo aver qualche tempo fa parlato del viaggio di nozze che Jennifer e Peter Glas stanno compiendo con il loro Unimog (vedi https://www.motori360.it/22815/il-giro-del-mondo-a-bordo-di-un-unimog/) ci sembra giusto ricordare anche chi 36 anni fa ha compiuto un’impresa probabilmente più impegnativa su un mezzo italiano.
Stiamo parlando di uno degli itinerari più impressionanti mai effettuati da un 4×4, sia pur particolare come l’Iveco 75 PC ovvero il giro del mondo compiuto tra il 17 agosto del 1976 e il 10 aprile del 1979 da Lino e Daniele Pellegrini (padre e figlio) e Cesare Gerolimetto che in totale macinarono 184.000 km.
L’impresa – allora classificata dal Guinness Book of Records come il primo e più lungo giro del mondo e registrata nell’edizione 1984 del Guinness dei Primati – venne poi minuziosamente descritta da Daniele Pellegrini in «Un camion intorno al mondo» un libro che anche se datato (Arnoldo Mondadori Editore, prima edizione 9/1980 al quale si riferiscono molte delle foto qui pubblicate), non dovrebbe mancare nella biblioteca di chiunque ami etnologia e viaggi.
Benché in 35 anni il progresso tecnico sia stato siderale e diverse situazioni geo-politiche siano cambiate, quanto descritto da Pellegrini in tema di approccio, metodo, pianificazione, organizzazione, dotazioni ed equipaggiamenti, tecniche di guida, burocrazia da affrontare e superare ed infine profilassi preventiva e dotazioni mediche per le emergenze, rimane di straordinaria attualità.
Se poi, per un attimo si ripensa all’articolo del giro del mondo sull’Unimog, si ha la conferma che un mezzo degli anni ’80 (non solo tedesco) regge assai bene il confronto con i più sofisticati e costosi mezzi attuali; importantissimo poi dare il giusto valore al fatto che “quel che non c’è non si rompe”.
L’equipaggio
Lino Pellegrini era giornalista e documentarista nonché padre di Daniele al quale aveva trasmesso l’amore per la scoperta manifestatosi già nell’oggetto della tesi di laurea, basata sull’etnologia di una popolazione afgana e messa subito dopo in pratica viaggiando in Europa, Asia, Africa e nelle Americhe per documentare le locali realtà etnografiche ed i comportamenti animali.
Cesare Gerolimetto era invece un gentleman driver impegnato nei rally, esperto di camion, viaggiatore ed infine fotografo, professione che abbraccia definitivamente, e con grande successo, dal 1984; sua l’idea del raid attorno al mondo che, germogliata nel 1972 durante il periplo dell’Africa a bordo di una jeep, inizia a concretizzarsi nel 1975 grazie all’incontro con Daniele. Quest’ultimo fu il solo a coprire l’intero itinerario in quanto il padre Lino percorse assieme a loro solo alcuni tratti del raid mentre Cesare Gerolimetto, pur partendo assieme a Daniele, aveva pianificato di dedicare a quest’avventura “solamente” due anni esatti della sua vita: da agosto 1976 ad agosto 1978. Daniele Pellegrini – a parte una parentesi di una ventina di giorni in compagnia della sorella – effettuò quindi gli ultimi otto mesi di viaggio in solitaria.
L’impresa
Il 75 PC venne battezzato «Pigafetta» in onore dell’omonimo storiografo e viaggiatore vicentino che fu con Magellano nella prima circumnavigazione del globo (XVI secolo) e, come molti antichi vascelli, questo a quattro ruote prese il vento per il suo lunghissimo viaggio da Genova per attraversare i cinque continenti, percorrendo circa 184.000 chilometri e facendo fronte con successo ad ogni tipo di difficoltà e, per mantenere comunque un contatto non solo ideale con Pigafetta e Magellano, fece ben sette traversate per mare per rientrare alla fine in Italia dopo 184.000 chilometri macinati in due anni, otto mesi e due giorni.
La scelta fra auto o camion
Un’auto 4×4, passo corto o lungo che sia, è molto più agile di un camion, ma quest’ultimo ha superiore luce a terra, in particolare se si adottano i ponti a portale (per la cui descrizione tecnica rimandiamo all’articolo sui coniugi Glas), ed una assai superiore capacità di superare ostacoli naturali e guadi; un surdimensionamento degli organi meccanici che dà grande tranquillità; non ultima l’intrinseca capacità di carico che consente maggiori approvvigionamenti ed autonomia e permette una camperizzazione impossibile da effettuare, ne, su una vettura fuoristrada o un pick-up 4×4.
D’altra le esperienze su camion vissute da Daniele Pellegrini in Bolivia e la decisa propensione di Gerolimetto per questa tipologia di mezzi, resero la scelta «obbligata» e qualora fosse sopravvissuta qualche residua perplessità, questa fu spazzata via dal fatto che «i nostri» sarebbero stati i primi a tentare il giro del mondo in camion, tanto che alla fine il record venne omologato ufficialmente nel «Guinness dei Primati».
Il mezzo
La scelta del mezzo con il quale compiere l’impresa cadde sull’Iveco 75 PC 4×4 a cabina ribaltabile, che all’epoca era un prototipo che poco tempo dopo sarebbe entrato in produzione: dotato di un 6 cilindri diesel da 5.184 cc e 122 cv Din a 3.200 giri/minuto, il mezzo dell’Iveco poteva contare su un cambio a cinque marce con riduttore e sul blocco pneumatico dei due differenziali e sulla trazione integrale inseribile manualmente a qualsiasi velocità. L’altezza minima da terra, grazie ai ponti a portale, era di ben 45 cm con una ben capacità di guado ben superiore, il telaio era costituito da longheroni ad asse rettilineo, uniti da traverse di collegamento, il tutto realizzato in acciaio ad altissimo carico di snervamento. Quanto alle prestazioni, la velocità di crociera su strada era di 80 km/h, mentre la pendenza massima superabile era del 70%. A rendere più efficace la guida concorrevano anche lo sterzo servoassistito ed i pneumatici profondamente tassellati appositamente realizzati dalla Pirelli (dei PR 16 da 12,5/20 radiali con carcassa tessile e 4 cinture in acciaio).
Il tutto era completato da un verricello da 4,5 tonnellate meccanico azionato dal motore che permetteva, a parte la maggiore robustezza rispetto ad un verricello elettrico, di essere impiegato a lungo senza compromettere le batterie.
La cellula abitativa e le altre dotazioni specifiche
Semplicità e robustezza: questi i principi costruttivi della parte camperizzata realizzata dalla Carrozzeria Orlandi di Brescia: una sorta di container abitativo largo quanto il 75 PC 4×4, alto 1,90 metri e lungo quasi 3 metri; gli elementi esterni erano modulari in lega leggera assemblati in “snap-lock”, un sistema ancora oggi valido, che permetteva di unire materiali di diverso tipo e/o spessore, senza ricorrere a saldature, rivettature o filettature; queste pareti erano state isolate, sul lato interno del container, con uno strato di 5 cm di schiuma poliuretanica autoestinguente a sua volta rivestito con pannelli di laminato plastico.
Il tetto rinforzato poteva sostenere mezza tonnellata di carico ed un air camping mentre l’arredamento interno era costituito da due spartani letti a castello trasformabili in divano (il superiore, ribaltato, diveniva lo schienale della seduta che era in realtà il materasso inferiore); una piccola cucina con lavello alimentato con pompa elettrica a pulsante che prendeva acqua dal serbatoio esterno da 170 litri; una cassetta di sicurezza e due enormi armadi destinati a contenere pochi effetti personali, attrezzature e ricambi per la manutenzione e gli interventi di fortuna sul mezzo, le attrezzature fotografiche e relative pellicole (niente «digital» a quei tempi…) e due respiratori subacquei con compressore per la ricarica e relative attrezzature ed, infine, due grandi ventilatori ed una ventola aspirante sul tetto; volutamente non contemplata la toilette (le «aree di sosta», isolate e perse nel nulla erano la regola mentre nelle zone abitate si poteva provvedere in maniera più consona); lo spazio interno così risparmiato era andato ad ingrandire gli armadi delle attrezzature. E l’elenco delle rinunce non finiva certo qui: niente doccia (esistevano oasi e corsi d’acqua) né aria condizionata, frigorifero e riscaldamento restavano due emeriti sconosciuti.
Dopo l’iniziale scelta di un solo serbatoio carburante da 800 litri (se si rompe sei a secco…), si optò per quattro serbatoi supplementari che garantivano, a seconda delle condizioni di marcia, un’autonomia oscillante fra i 3.500 ed 4.000 chilometri ed alcune taniche per buona misura; tre le ruote di scorta (ognuna superava il quintale di peso e abbisognava di una specifica gruetta per poter essere portata a terra), due fari supplementari ed infine il potente verricello meccanico del quale si è già detto.
L’itinerario
■ Europa-Asia
17 agosto 1976: partenza da Genova, passaggio dei Balcani e della Turchia senza tralasciare la Cappadocia, prosecuzione in Arabia Saudita con puntata nel deserto del Nefud, prosecuzione in Iran ed Afghanistan per visitare i laghi formati dal fiume Band-I-Amir e circondati da dighe naturali di calcare e nascosti fra le vette dell’Hindukush a circa 3.000 metri di altezza; pur essendo a meno di 200 km da Kabul sono raggiungibili ancora oggi solamente con veicoli a trazione integrale.
Si prosegue attraversando Pakistan ed India le cui tappe principali sono state Amritsar e Goa con arrivo a Madras per affrontare la prima traversata per Penang proseguendo via terra per Singapore.
■ Continente Australiano
Seconda traversata da Singapore a Freemantle e poi in viaggio, con la stagione delle piogge, verso Ayers Roch attraverso il deserto Gibson per raggiungere poi Alice Springs, tornare indietro in direzione di Ayers Rock per scendere a Sud verso Coober Pedy ed i Laghi Salati; da lì prosecuzione verso Brisbane, Windorah e Birdsville; nuovo dietro-front verso Brisbane per seguire poi una via interna, parallela a quella fatta all’andata, che avrebbe riportati il Pigafetta e relativo equipaggio a Freemantle, questa volta non più porto di arrivo ma di imbarco per l’Argentina.
■ L’Africa da Sud a Nord
Terza traversata da Freemantle a Città del Capo; superato il Sud Africa l’equipaggio del Pigafetta, abbandonata l’idea di seguire il percorso pianificato per arrivare in Zambia a causa della chiusura delle frontiere di Angola e Mozambico ai veicoli stranieri, dovette ripiegare sul Botswana ma la presenza di guerriglieri sulle “strade” percorribili, impose l’attraversamento del deserto del Kalahari, 1.500 km di sabbia e sterpaglia, 800 dei quali percorsi con le ridotte costantemente innestate e consumi alle stelle; il tutto senza incontrare alcuna traccia di presenza umana. Poi lo scenario inizia a cambiare culminando nelle paludi dell’Okawango, dense di ippopotami e coccodrilli dalle quali attraversare poi, sempre per evitare incontri con i guerriglieri, il Parco di Chobe nel quale Gerolimetto, appartatosi vicino al Pigafetta con intenzioni “fisiologiche” intuì più che vedere delle «presenze» nell’erba alta: risalì precipitosamente da dove era sceso per scoprire ben otto leonesse stazionanti nei pressi…
Superata la frontiera dello Botswana e traghettato il 75 PC 4×4, si riprende in Zambia il percorso originario attraversando su strada asfaltata – non senza numerose deviazioni fotografiche e documentaristiche – Tanzania, Kenya e Uganda.
Da quest’ultimo paese iniziò il viaggio per Tunisi, prima attraverso lo Zaire (2.600 km senza rifornimenti ma conditi dalla presenza di profonde fangaie causate dalla uscente stagione delle piogge – superate solo grazie alla presenza del verricello – e passando poi per la Nigeria per affrontare poi un salto finale chiamato Sahara in direzione Tunisi.
■ Il Sud America
Traversate n° 4 e 5: da Tunisi a Genova e da Genova a Buenos Aires; un bel programmino quello che attendeva a questo punto il Pigafetta e relativo equipaggio: dall’estremo Sud dell’Argentina all’Alaska… ma andiamo per ordine. Lasciata Buenos Aires e la sua accoglienza trionfale (lo stesso Daniele Pellegrini così la definì, sottolineando che ben 180 testate avevano dato spazio all’impresa ed ai suoi protagonisti) si puntò verso la Terra del Fuoco e la sua capitale Hushuaia, raggiunte attraversando l’oceano verde delle Pampas punteggiate da mandrie di bovini bradi, monumenti viventi di famosa carne argentina, apprezzata in tutto il mondo ma che pochi sanno essere nella sua parte più pregiata di origine italiana (cfr. apposito riquadro)
Dalla verde Pampa ed i suoi bovini ancora più giù, verso la Patagonia brulla ma ricca di pecore passando per la Penisola di Valdes, vero paradiso naturale ricco di otarie, pinguini e leoni marini per giungere, superati 2.000 chilometri di asfalto ed altri 1.300 km di sterrato, a Hushuaia per proseguire poi verso lo Stretto di Magellano che i nostri viaggiatori trovarono, tanto per confermarne la fama, flagellato da piogge violente e sferzato da venti che non permettevano al Pigafetta di superare i 40 km/h a tutto gas.
La curiosità: Hushuaia dà sul canale di Beagle, un tratto di mare che prese il nome dalla nave di Charles Darwin, il padre degli studi sull’evoluzione della specie.
Dalla Patagonia alle Ande, direzione Cile, attraverso il Passo di Agua Negra – a quota 4.785 metri sul livello del mare (m.s.m.) cui seguirono 9 ore di discesa sterrata ad alta tensione tagliata nella roccia: fondo friabile, di parapetti e protezioni neppure a parlarne e strapiombi che in alcuni casi superavano i 1.000 metri di profondità…
Superato il passo ad attendere i nostri viaggiatori ecco in successione il deserto di Atacama, punteggiato da villaggi fantasma e cimiteri abbandonati, la salita verso il confine con la Bolivia, sottolineata da altopiani desertici, da alcuni laghi salati asciutti ma talvolta cedevoli, e da un graduale cambiamento del paesaggio portava i nostri viaggiatori ad affrontare l’Amazzonia, il mondo degli Incas e le sue testimonianze, il lago di Titicaca (3.800 m.s.m) – nei cui fondali vennero effettuate alcune immersioni – ed infine la pista sino all’osservatorio di Chacaltaya (5.200 m.s.m. !!!).
In saltuaria compagnia delle Ande il Pigafetta lasciava la Bolivia, attraversava Perù ed Ecuador ed entrava in Colombia dalla quale, a causa di alcune tendenze speculative su passaggi navali, è velocemente fuggito tornando in Ecuador per imbarcarsi verso nord dal porto di Guayaquil dove, pur risparmiando considerevolmente sul passaggio in nave, venne tuttavia perso un mese.
■ L’America Centrale
Traversata n°6: Guayaquil/Balboa (porto USA situato in territorio panamense); estremamente diversi i vari paesaggi attraversati a volte rigogliosi ed a volte desertici ma il mese perso in Ecuador trasformò la traversata dell’America centrale in una galoppata veloce ma senza problemi attraverso Costa Rica, Nicaragua, Honduras, El Salvador, Guatemala ed infine il Messico nel quale – riporta il diario di viaggio – i pericoli più grandi vennero da individui in divisa mentre la popolazione, come quella degli altri paesi attraversati, si mostrò sempre cordiale ed ospitale.
■ USA, Canada e Alaska
L’ingresso negli Stati Uniti permise di allentare la tensione e costituì un deciso cambio di ritmo nelle singole tappe che, a colpi di 15 ore di guida al giorno, fecero divorare al Pigafetta i 15.000 chilometri che dividevano Panama dall’Alaska in soli 21 giorni: l’obiettivo primario era infatti proprio l’Alaska mentre la successiva ricognizione degli Stati Uniti faceva infatti parte del viaggio di rientro. Da Buenos Aires sino a quel punto ci erano voluti 6 mesi!
La rete stradale (che non significa automaticamente solo asfalto …) dell’Alaska copriva il centro-sud di questo 49° Stato degli USA e fu questa l’area visitata dai nostri, caratterizzata dalla presenza di grandi montagne, immense foreste e ghiacciai imponenti la cui formazione era favorita da frequenti precipitazioni che a nord non erano frequenti; le bassissime temperature facevano il resto.
Ma le sorprese vennero, in particolare dall’incontro con tre comunità russe: la prima innucleata a Nikolaevsk, un isolato e non indicato villaggio abitato solamente da russi bianchi fermi in tutto e per tutto, lingua compresa, ai primi del 1900, la seconda – i dukabor – residente a Grand Forks, famosa per la sua violenta intransigenza non solo nei confronti della realtà esterna ma anche all’interno della comunità stessa; infine la terza, costituita dagli utteriti e territorialmente distribuita fra Canada ed USA; questa pratica strettamente la comunione dei beni senza alcuna possibilità di possedere risorse proprie di alcun tipo, men che meno danaro.
Ed infine Anchorage: questa grande città dell’Alaska rappresentò la fine del viaggio per Gerolimetto e l’inizio della parte in solitaria di Daniele che impiegò altri 8 mesi (e 54.000 chilometri…) per visitare gli Stati Uniti scoprendo, come altri moderni viaggiatori che hanno visitato questa grande nazione non con il classico approccio turistico, la distanza siderale fra gli USA dei film e quelli della realtà quotidiana lontana dalla Grande Mela.
Agli occhi di Daniele Pellegrini questo grande paese si è rivelato (siamo nel 1979) estremamente progredito nelle zone metropolitane ed industriali, coltivato meccanicamente e intensivamente (basso quindi l’impiego di mano d’opera) nelle sue campagne ma al tempo stesso ancora ben preservata in moltissime altre aree selvagge altrettanto estese: dal Nevada con la sua piccola parte di Valle della Morte (la maggior parte è in California) alle zone desertiche e dai canyon alle formazioni rocciose dell’Utah e dell’Arizona.
Nel viaggio verso New York breve sosta a New Orleans e permanenza di un mese in Pennsylvania in compagnia degli amish i quali, benché a poche ore da Washington, riportavano con i loro abiti fermi al 1800 ed il loro rifiuto dei mezzi della civiltà moderna, all’America del calesse.
Arrivato a New York, dopo i festeggiamenti e le interviste di rito, Pellegrini imbarca il Pigafetta, ecco la settima traversata, non più verso Genova, come originariamente pianificato, bensì alla volta del Portogallo, in modo da completare il raid con un rientro in Italia via terra e quindi Lisbona, Madrid, Parigi, Monaco di Baviera ed infine Milano: Daniele Pellegrini si riuniva, non senza commozione, al padre Lino ed al suo biennale co-driver Cesare Gerolimetto.
Declino e restauro
Il 2 giugno 2006, quindi 35 anni dopo il suo rientro in Italia ed il suo «parcheggio» in quel capannone a Torino, il Pigafetta, pilotato ancora una volta da Cesare Gerolimetto e scortato da 8 fuoristrada d’epoca, ha fatto il suo ingresso al Museo Bonfanti-Vimar (http://www.museobonfanti.veneto.it/ ) che gli ha riservato il giusto posto nella memoria.
Giovanni Notaro
Video prestazioni dell’IVECO 75 PC 4×4
■ rampone in discesa
http://www.youtube.com/watch?v=8r-cklbz944
■ salita con fondo argilloso
http://www.youtube.com/watch?v=XPK8RPkMJ4c
■ guado non profondo
http://www.youtube.com/watch?v=DglR0Jgum3o
[ Scheda tecnica: IVECO 75 PC 4×4 di serie ]
I dati che seguono (non facili da reperire) provengono da:
http://archivio.fuoristrada.it/messages/52254/115347.html
Struttura: carrozzeria cabinata, posti totali in cabina: 2; guida a destra
Misure in metri
Lunghezza x Larghezza x Altezza (a scarico) = 5,2 x 2,2 x 2,5
Altezza min. dal suolo (a carico) 0,45
Passo m 2,75 – Carreggiata ant. e post: m 1,852 entrambe; Sbalzi ant. e post. m 1,066 e 1,038; Diametro minimo di volta m 12,000
Pesi (Masse in kg)
Tara cabinato: kg 3.910+70 (conducente) kg 3.980; Portata utile: kg 3.870; Peso complessivo: kg 7.850; Peso rimorchiabile: kg 3.500
Telaio, sospensioni, freni, ciclistica
Servoguida idraulica a circolazione di sfere
Sospensioni: molle a balestre semiellittiche. Anteriore a semplice flessibilità. Posteriore a doppia flessibilità con molle ausiliarie. Ammortizzatori idraulici telescopici
Pneumatici: asse ant. e post.: 12.5-20 PR 16
Motore modello: 8060.02 (anteriore, verticale)
Diesel ad iniezione, 4 tempi; 6 cilindri quadro (alesaggio/corsa 110/110); cilindrata 5.184 cc; Potenza max: (cv 122 DIN = 90 kW a 3.200 giri/1′); Coppia max (DIN): a 1.800 giri/1′: Nm 317 (kgm 32,3); raffreddamento: ad acqua.
Cambio e trasmissione
Cambio meccanico a 5 marce in avanti e 1 retromarcia a comando manuale e con riduttore-ripartitore centrale di velocità; rapporti dalla prima alla quinta velocità: 1° 1:6.000 / 2° 1:3.412 / 3° 1:2.174 / 4° 1:1.357 / 5° 1:1 / RM 1:5.538 / rapporto al ponte 1:7.583; rapporto di riduzione 1:2.044
Frizione: monodisco a secco; trasmissione: meccanica mediante 3 alberi tubolari a manicotti scorrevoli e giunti cardanici. ruote motrici: posteriori + anteriori innestabili
Freni
Freno di servizio e di soccorso: idropneumatico, a comando a pedale, agente sulle 4 ruote a 2 circuiti indipendenti. Freno di stazionamento: meccanico a mano agente sulle ruote posteriori azionato da molle bloccabile a comando pneumatico. Freno motore (a pedale): a comando indipendente
Impianto elettrico
Alternatore: 28 volt – 26 A; Batterie: n. 2 in serie da 12 volt – 110 Ah
Prestazioni
Velocità max. effettiva: km/h 80; Pendenza max superabile: 68,5%; Consumo (norme CUNA): litri/100 km 17,4; Serbatoio carburante: capacità totale litri 145
LA CHIANINA IN ARGENTINA
Nel suo interessante ed istruttivo libretto «La Grande Bistecca» (Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca 1999), Aldo Santini denuncia come uno dei tanti casi di disinteresse politico e malaburocrazia abbia costretto, a causa di interessi contrapposti a quelli degli allevatori di bovini di razza chianina e nonostante i loro documentati ed accorati appelli, a svendere gran parte dei loro capi agli allevatori argentini.
Questi avevano capito che la chianina era l’unica “capace di trasformare qualsiasi tipo di erba in carne”; in tal modo questa razza tutta italiana è andata a formare un’importante voce dell’export argentino i cui allevatori “sin dagli anni ’60 del 1900 hanno puntato sui riproduttori Chianini per creare allevamenti in grado di non subire le sopraffazioni USA….. il bove chianino… ha conquistato l’America, è diventato il re degli allevatori prima nel Sudamerica e poi addirittura nel Nordamerica”.
Quindi il lettore che in una Churrascheria a Milano come a Roma si gusterà un ottimo asado, o in una nota catena italiana di bisteccherie USA ordinerà una Texas Steak, sappia come stanno le cose, fermo restando la bontà di quanto gli viene servito (d’altra parte, buon DNA non mente…). Ci scusiamo per questa puntualizzazione ma un sassolino dalla scarpa proprio ce lo dovevamo levare non certo nei confronti degli Argentini che hanno curato e bene i loro interessi, quanto verso l’efficacissima parte negativa delle nostre Istituzioni.