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Jaguar XJ 13 Sport

Inizio e fine di un’auto da corsa che mai conobbe l’onore della competizione

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Più di una Casa ha avuto a che fare con qualche genio ribelle (si pensi solamente all’epurazione voluta dal «Drake» nel 1961: fra le vittime illustri Carlo Chiti e Giotto Bizzarrini) ma in Jaguar, specialmente dagli anni ’50 ai ‘70 del secolo scorso, i «non inquadrati» si manifestarono in almeno due occasioni: la prima fu nel 1954 allorché lo stesso William Lyons decise di costruire nella falegnameria della fabbrica – all’insaputa del reparto corse che stava realizzando la Sport «C» – un prototipo aerodinamico chiamato «Bronco» che si rivelò poi essere prefigurazione della successiva Sport «D» che ebbe poi il successo che tutti conosciamo.

La seconda occasione si materializzò verso la metà degli anni ’60, quando i progettisti Bill Haynes e Claude Bailey iniziarono la costruzione della Sport XJ13 nonostante lo stesso Lyons, nel frattempo divenuto Presidente della Jaguar ed evidentemente dimentico delle sue precedenti intemperanze progettuali, ne vietò la realizzazione.

I due progettisti disattesero l’ordine e costruirono l’auto «attorno» ad un inedito 12 cilindri a V da 5 litri, nella speranza di convincere il management a farla debuttare alla 24 Ore di Le Mans dell’anno successivo, anche per contrastare la Ford intenzionata a scendere in campo, e per rinverdire le 4 vittorie colte con le vetture ufficiali ed una quinta con una delle «D» affidate alla scuderia belga Ecurie Ecosse.

I lavori, procedettero però a rilento proprio perché clandestini, ed il primo esemplare venne positivamente collaudato solo nei primi mesi del 1967; ma a quel punto la Jaguar non era pronta sotto il profilo dei materiali e della logistica e nel 1968 un nuovo cambio nel regolamento tecnico, che ridusse il frazionamento a massimo 8 cilindri e la cilindrata a 3 litri, costrinse ad accantonare l’auto.

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Due sfortunate resurrezioni

La Jaguar aveva in listino la «E» sino dal 1963 e pur mantenendola in produzione con il celeberrimo XK 6 cilindri da 3,8 litri, decise di ampliare la gamma con un modello a 12 cilindri, il cui motore derivò proprio dal cuore della XJ13.

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Fu così che nel 1971 questa venne riutilizzata quale supporto pubblicitario della nuova «E» divenendo la protagonista di riprese fotografiche e cinematografiche nel corso delle quali una ruota in lega, ormai datata, cedette sotto sforzo, provocando un’uscita di strada dalle conseguenze piuttosto gravi per l’auto che, dopo alcuni cappottamenti, ne uscì con la parte anteriore destra e quella posteriore sinistra completamente distrutte.

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Così com’era, il relitto venne rimesso in un angolo per essere due anni dopo ricostruito sostituendo il motore strutturalmente danneggiato con l’unico altro sopravvissuto fra i sei costruiti, benché non perfettamente efficiente. A quel punto l’auto venne utilizzata sporadicamente e comunque in modo prudente ma queste cautele non bastarono: nel 2004 una trasferta a Copenhagen costò assai cara alla già più che sfortunata «XJ13» che, durante le operazioni di scarico, cadde letteralmente dalla bisarca sul sottostante marciapiede subendo gravi danni al basamento-motore ed alla scocca. Per l’ennesima volta l’auto venne accuratamente riparata riportando anche la meccanica a piena efficienza ed oggi occupa un posto di rilievo nel Museo della Casa 

Caratteristiche tecniche 

Motore: questo fu il primo V12 di casa Jaguar; progettato da Claude Bailey, aveva una cilindrata di 4,99 litri e bancate inclinate fra loro a 60° con distribuzione a due valvole per cilindro comandate da doppi alberi a camme in testa a cascata di ingranaggi. L’alesaggio di 87 mm e la corsa di 70 mm rendevano il motore superquadro il che permetteva di raggiungere un picco di 8.500 giri/min con utilizzo «normale» limitato a 7.800 mentre la coppia di ben 52 kgm si otteneva a 6.000 giri/min. L’alimentazione a carburatori venne rapidamente abbandonata a favore dell’iniezione indiretta Lucas grazie alla quale venne raggiunta la ragguardevole potenza (per allora e per un due valvole) di 502 cv con picchi di 510 cv.

1966 Jaguar XJ13

Interessante la collocazione dei condotti di aspirazione, ricavati centralmente fra i due alberi a camme e della pompa di iniezione posta al centro delle due bancate. Il basamento era interamente in alluminio con canne-cilindro riportate in ghisa mentre l’albero motore venne realizzato in acciaio forgiato su sette supporti di banco; infine, per abbassare al massimo il baricentro venne adottata una lubrificazione a carter secco. Il motore, posteriore-centrale era accoppiato ad un cambio ZF a 5 rapporti a sua volta solidale al gruppo differenziale.

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Di queste unità ne furono costruite in tutto 7, due delle quali (quelle appunto da 510 cv) vennero elaborate per uso agonistico. Una volta accantonata l’idea delle competizioni, il motore modificato nell’alesaggio (da 87 a 90 mm) e semplificato nella distribuzione – ridotta ad un solo albero a camme per bancata – venne destinato al montaggio in serie prima sulla rinnovata serie «E» e successivamente sulla serie XJ.

Chi desidera ascoltare la «voce» di questo propulsore può connettersi a:

Mentre chi ama approfondirne la tecnica costruttiva può collegarsi a:

Struttura e ciclistica

Sfruttando l’esperienza maturata sulla «D» Sport, venne realizzata una monoscocca in alluminio basata su una serie di paratie latitudinali parallele ed opportunamente sagomate, sulle quali vennero rivettati una serie di pannelli sempre dello stesso materiale.

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La struttura così ottenuta assicurava leggerezza ed un’ottima rigidità di base, esponenziata dal fatto che il gruppo motore-cambio-trasmissione, una volta montato in posizione longitudinale, diveniva solidale con l’intera scocca assumendo funzione portante.

Le sospensioni anteriori erano a triangoli (rettangoli) sovrapposti, con i gruppi molla-ammortizzatore coassiali montati anteriormente agli stessi triangoli collegati fra loro da una barra antirollio; a questo proposito più di una autorevole testata sottolineò come la barra antirollio anteriore fungesse anche da elemento elastico mentre un dettagliatissimo «spaccato» dovuto alla matita del grande John Hostler, pubblicato all’epoca su Autocar evidenziava l’esistenza dei gruppi ammortizzanti anteriori così come descritti.

1966 Jaguar XJ13

Le sospensioni posteriori si basavano anch’esse su due triangoli dotati anteriormente di due lunghi bracci trasversali, infuocarti lato motore su uno specifico supporto scatolato (a sua volta imbullonato al basamento) e lato ruota al portamozzo; i due corti bracci posteriori, perpendicolari al gruppo motore-trasmissione, erano entrambi infulcrati alla centina posteriore trasversale della monoscocca; su questa traversa erano inoltre imperniati superiormente i due gruppi molla-ammortizzatore coassiali, connessi inferiormente al porta mozzo mentre la robusta barra di accoppiamento, dal profilo particolarmente complesso, era collegata tramite due lunghe bielle di reazione alla traversa posteriore di ciascuno dei due triangoli inferiori.

Il moto era trasmesso da due semiassi, collegati alla scatola del differenziale con doppio giunto omocinetico mentre i freni Girling, ovviamente a disco sulle quattro ruote, erano autoventilanti. Malcolm Sayer disegnò una bassa e filante spyder biposto in sottile lamiera di alluminio, caratterizzata da un aerodinamico parabrezza avvolgente raccordato, tramite i due piccoli finestrini laterali, al fascione che copriva il roll-bar e correva alle spalle del pilota, trasversalmente alla carrozzeria.

 

 

 

 

Su questo fascione era incernierato il lunotto posteriore, rastremato verso la coda, che copriva il magnifico V12 completamente a vista, un fattore scenografico che avremmo rivisto, decenni più tardi, sulle nostre Ferrari e Lamborghini. 

Repliche

Non molte le aziende che si cimentano in questo tipo di replica, cosa facilmente spiegabile con il prezzo, fornito solamente on demand; comunque il facoltoso appassionato che volesse mettersi nel box una replica di questa vettura può direttamente commissionarla, tanto per citare alcuni fra i costruttori più noti, ad una delle seguenti factories:

● l’inglese TWRR (da non confondere con la più celebre TWR ex Tom Walkinshow) una cui replica, si dice, sia stata scambiata nell’ormai lontano 2006 a 253.000 dollari;

● alla Proteus (GB) della quale forniamo un link ad un interessante filmato:

Racing Green Cars un cui esemplare – rimasto invenduto – fu inserito nel luglio 2004 ad un’asta di Coy’s con una valutazione oscillante fra le 550 e le 600mila sterline;

Tempero (basata in USA e Nuova Zelanda) una cui replica – gira voce sul web – pare sia passata di mano ad una cifra di poco superiore al milione di euro;

Vicarage (GB);

Predator Performance (USA) che però realizza le sue repliche in alluminio e fiberglass…

AKZ Vehicle Engineering (Australia) che sembra aver realizzato in passato una replica piuttosto accurata.

Nel 2012 un fan di questa vettura dichiarò sul suo sito (*) di voler realizzare da zero una replica di questa vettura; guardando allora quanto pubblicato sugli studi a computer ed al modello CAD-CAM della maquette in legno sulla quale battere le lastre d’alluminio della carrozzeria, sembrava essere di fronte ad un progetto concreto e costoso; rivedendo il blog in questi giorni lo abbiamo trovato aggiornato a quest’anno.

(*) http://www.xj13.eu/XJ13/post/2012/04/01/Recreating-a-20th-century-car-using-21st-century-technology.aspx 

Modellismo

Pochi i costruttori che si sono cimentati nella riproduzione di questo particolare modello: si può ancora trovare in giro (faticosamente) una bella riproduzione in scala 1/18 della Autoart che riproduce l’auto anche in 1/43 e sempre in 1/43 un buon kit non più in produzione è quello – ormai raro – della francese Paddock Miniatures kit.

Giovanni Notaro